sabato 22 ottobre 2011

La via da percorrere è difficile

Tentare il dialogo è sempre utile ma richiede doti di intelligenza, di pazienza, di possibilità di cambiare la propria visione delle cose (che pochi hanno, io spesso no) e la capacità di immedesimarsi nella posizione dell'altra o dell'altro, non tanto per cambiare idea, ma semplicemente per cercare di capire.   
Richiede inoltre una seria preparazione e conoscenza del tema in discussione, e qui sicuramente ho le lacune maggiori; non sono una donna, non potrò mai avere una conoscenza vissuta sulla mia pelle della condizione femminile, non sono un giovane di oggi, non sono un praticante cattolico, e non sono tante altre cose.
Condivido molte delle prese di posizione anche dure delle donne, come condizione necessaria per superare le chiusure ancora presenti nella nostra società, ma noto, purtroppo, una sempre maggior radicalizzazione delle posizioni. Le stesse donne che rifiutano le posizioni di altre ne sono una prova, ed io, come uomo, resto sempre stupito di questa realtà quasi incomprensibile. 
Condivido, credo, le ansie e la rabbia dei giovani, ma non arrivo ad immedesimarmi in alcuni comportamenti estremi.
Sento mie molte delle problematiche del mondo cattolico, ma non sono un osservante e non riesco ad accettare nessuna presa di posizione integralista, senza sfaccettature, quando si parla di temi delicati, che investono la sfera privata e le posizioni etiche.
Una divisione manichea del mondo non mi piace, almeno in fase di discussione, quando servirebbe capire ed approfondire ogni posizione, prima di rifiutare ogni contributo non perfettamente in linea con le proprie posizioni di fondo.
Provo a spiegarmi con un solo esempio.
Il tentativo di dialogo col mondo integralista cattolico, che vede nella IGV (interruzione volontaria della gravidanza) il male assoluto, che rifiuta per certi versi l’utilizzo persino degli anticoncezionali, mi appare infruttuoso.Come pure poco utile si è rivelato discutere con alcune donne che vedono come un loro diritto indiscutibile l'aborto, anche se usato come mezzo anticoncezionale, ignorando una seria prevenzione.

Sono sempre più perplesso, lo confesso, nei confronti questa difficile ma necessaria via del dialogo. Vedo chiusure reciproche, tentativi di ridurre tutto ad uno slogan semplificato, mentre la realtà della vita è ben altro rispetto alle nostre costruzioni ideologiche. 
                                                                                  Silvano C.© 


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venerdì 21 ottobre 2011

vorrei capire

Io vorrei capire, ma a volte dipende anche dallo stato d'animo col quale mi pongo davanti alle questioni il livello di comprensione che posso raggiungere. Quindi c'è un livello emotivo, sempre, da considerare in ogni analisi che parte da me, visto il mio modo di ragionare. Con questa premessa prendo atto anche delle occasioni di dubbio, che ritengo parti essenziali di ogni tentativo di comprensione.
 
Mi chiedo come si sente un giovane dai 20 ai 30 anni davanti ad una situazione sempre più chiusa nei suoi confronti,  non potendo contare sull'aiuto dei genitori, senza prospettive econonomiche, che sogna una casa sua ed una famiglia sua, che non può pensare di avere figli, o neppure di avere un'auto. Come si deve sentire un giovane in queste condizioni? E' lecito immaginare che possa perdere la testa in un momento di rabbia? Può commettere gesti inaccettabili, violenze gratuite contro persone o cose estranee alla sua condizione, solo come atto di ribellione senza speranza ad una società che non lo accetta, che racconta di capirlo, ma che poi nei fatti lo abbandona senza speranze, e vede gli anni passare, con i soliti che fanno carriera sfruttando scorciatoie antiche oppure nuovissime? 
Io non so dare risposte. Sono contro la violenza, ma non sono nelle condizione di tanti giovani. Sono contro la violenza ma non sono contro chi chiede di non essere un precario a vita, e penso anche a mio figlio. Sono sempre più in difficoltà a dividere in positivo e negativo, con giudizi manichei. Resto senza modelli di paragone e di comprensione. 
Io vorrei che i giovani non cadessero vittime di cattivi maestri o di demagogie.  
Vorrei pure capire quanta violenza nasce istigata dal potere stesso, manipolata per distruggere il confronto sul progetto di società, per mantenere tutto come prima.
                                                                       Silvano C.© 


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Un numero preciso di parole

Un uomo alla nascita ha assegnato un numero limitato di parole che può pronunciare, non una di più né una di meno. Un numero prederminato, che stabilisce in modo netto la durata della sua vita. È una invenzione letteraria presente in un racconto, inverosimile, apparentemente, che però diventerebbe del tutto plausibile se noi potessimo rivedere la vita di quell’uomo a rovescio, dalla fine al suo inizio. In quella condizione si potrebbero contare in modo preciso le parole pronunciare da quell’uomo, a partire dall’ultima, per arrivare poco a poco alla prima.
La nostra vita del resto è predermitata, io credo, anche se ovviamente non ho prova alcuna di questa convinzione.  È prederminata ma non ne conosciamo gli sviluppi, non ci sono note tutte le variabili, non sappiamo valutare le interazioni tra noi e tutto ciò che non è noi. Una tale condizione potrebbe ammettere un dio, ma potrebbe pure prescindere da qualsiasi entità superiore. È del tutto ininfluente il sapere se qualcuno sa in anticipo. Anche cioè se dovessimo ammettere che una entità superiore ha interesse a modificare la realtà pre-scritta, rimarrebbe sempre l’interrogativo sul perché tale entità non avrebbe dovuto appunto prevedere ogni singolo sviluppo, prima di dover modificare il concatenarsi degli eventi, microscopici e macroscopici.
E il libero arbitro? Tutta un'invenzione, evidentemente, nessuno è mai totalmente libero, in ogni sua azione. Senza pensare agli esseri viventi di altre specie che ci accompagnano durante la nostra vita, ma limitandoci alla specie umana, noi non siamo neppure liberi di nascere o non nascere. Qualcuno apparentemente decide per noi, anche se in realtà neppure quel qualcuno può decidere sino in fondo.
Inoltrei siamo vincolati dalla nostra corporeità, solida, pesante, invadente. Il nostro corpo segue tutte le leggi fisiche di causa ed effetto. La nostra mente immateriale sembra libera, ma segue a sua volta nozioni innate, apprese, assimilate da altri che sono venuti in contatto con noi. E mai in modo casuale, ma ogni contatto è dovuto a motivazioni preesistenti.
Un richiamo olfattivo o un sorriso scatenano una reazione, che può far nascere un amore; una frase stimola un gesto di rifiuto o di approvazione; uno sguardo determina un incidente che può costare la vita.
Eppure siamo noi i colpevoli dei nostri errori, non il caso, e abbiamo il bisogno di pensarlo, perché dobbiamo premiare o punire, dobbiamo avere categorie di giudizio, dobbiamo sentire la bontà nelle persone, oppure la cattiveria.
Sentiamo il bisogno di continuare a pensare che il Sole sorge, non che invece siamo noi, sulla Terra, a ruotare attorno al nostro asse. E lo ripetiamo, come un mantra, come un rosario, come un vecchio disco 45 rovinato che non si sposta da una frase, ripetuta all’infinito.
Cerchiamo il colpevole. Cerchiamo la ragione. Giudichiamo la realtà. Ci dividiamo in favorevoli e contrari, possibilisti e indifferenti, e non pensiamo che tutti, forse, siamo parte dello stesso gioco.
                                                                        Silvano C.© 


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lunedì 10 ottobre 2011

Grazie mamma

Mi hai desiderato, voluto, ed a un certo punto sono arrivato. Non ricordo assolutamente come è successo,  e non so neppure se mi interessava arrivare. Non mi avevi chiesto nulla. Ma non potevi neppure chiedermi nulla, come potevi fare, visto che non c’ero?
Quali sono stati i miei primi momenti mi è difficile capirlo, so solo che tu avevi molte aspettative che mi riguardavano. Mi sono sentito atteso, credo, forse amato, forse eri pure preoccupata, per il tuo lavoro, per papà che c’era e non c’era, per la tua salute, per i soldi che non bastano mai, perché avevi smesso di fumare proprio pensando a me, e perché cercavi di mangiare le cose buone che potevano farmi crescere bello e sano.
Non sapevi neppure se sarei stato un bambino o una bambina. All’inizio era troppo presto. Se fossi stato un maschietto, che a te sarebbe tanto piaciuto, già avevi pronti alcuni giochi, che avevi iniziato a comprare. Immaginavi che mi avresti insegnato tante cose, a correre, a cercare i fiori, a giocare con la sabbia, a nuotare, a fare amicizia con gli altri bambini.
Avevi paura di non potermi dedicare tutto il tuo tempo, ma sapevi che per me non avresti badato a sacrifici. Ed io non capivo nulla, io stesso ero ancora nulla o quasi, ma mi sembrava di stare bene.
Poi è successo qualcosa. Ad un certo punto tu eri preoccupata, lo percepivo e forse pensavo di essere te, non sapevo di essere altro da te. Ma si era spezzato qualcosa, e non capivo che cosa.

Ora so cosa è successo, mamma. Hai avuto la notizia che avrei avuto una malformazione molto grave, che non sarei mai stato capace di correre come gli altri bambini, non avrei mai giocato con la sabbia, non avrei mai imparato a nuotare.
Ti hanno detto che sarei cresciuto quasi come tutti gli altri, per pochi anni, e che poi mi sarei ammalato, quando avrei potuto iniziare a conoscere gli altri. Ti hanno detto che sarei stato cosciente, che avrei capito la mia situazione, che avrei sofferto per questo.

E tu, mamma, che mi hai sempre voluto bene, hai deciso di fare la cosa che ti avrebbe uccisa, che ti avrebbe distrutta per sempre, mentre io non capivo e non sapevo neppure se c’ero oppure no, cos’ero, cosa facevo.

Hai deciso di fermare per sempre il mio cuore che già batteva, perché non avresti mai voluto vedermi soffrire, per risparmiarmi un dolore immenso,  in quel momento nel quale ancora non capivo cosa sarei stato. Hai voluto solo per te il dolore che sarebbe toccato a me.

Grazie mamma, per avermi amato come nessuna ha mai amato. Per avermi dato il tuo amore prima ancora che io potessi capirlo. Per avermi salvato da una vita di dolore e di difficoltà. Grazie per avermi amato tanto.

                                                                                                 Silvano C.©  
 ( La riproduzione è riservata. Ma non c'è nessun problema se si cita la fonte.  Grazie)

giovedì 6 ottobre 2011

Questo è amore?

Da adolescente ho commesso una stronzaggine indegna, della quale in seguito mi sono pentito, e per la quale ancora oggi non cerco scusanti. Ho detto a mia madre che non doveva mettermi al mondo.
Ora so cosa significavano quelle parole, ma allora non lo sapevo, ero perfettamente convinto di essere nel giusto. Tra l’essere in uno stato di dolore e di malessere esistenziale e il non essere io allora giudicavo di gran lunga migliore il non essere. 
Ancora oggi questa mia idea di fondo non mi ha lasciato del tutto. Se stare al mondo significa soffrire, se sappiamo che durante la vita affrontiamo cose che non vorremmo mai affrontare, perché mettere al mondo un altro essere sapendo quello che lo aspetta, in modo cosciente, quasi come se fosse un atto di amore?
Ho vissuto in modo molto conflittuale il mio rapporto con la fede, allontanandome sempre di più, provando un interesse crescente per gli aspetti filosofici della nostra esistenza, cercando di ridurre a parametri riconoscibili il problema di fondo sul perché delle cose, sentendo la teologia come una aspirazione verso l’umano più che verso il divino. Raramente mi sento trascendente e lontano dalla carne nella quale mi ritrovo confinato, anche se spessissimo la dimentico, ed altrettanto spesso cado preda delle sue debolezze, anche se in misura tutto sommato abbastanza modesta e mediocre.
Non ho ancora capito sino in fondo, ora, in età avanzata, se ho voluto un figlio, ed uno solo, per un supremo atto di amore o per un semplice atto di egoismo, come la realizzazione di una mia aspirazione o di un mio desiderio.
Forse è stata la volontà di completare il rapporto con mia moglie, ma pure questo è egoistico, nei confronti di mio foglio. In definitiva sono abbastanza scettico, poco sicuro delle mie scelte.
D’altro canto non mi sono ancora pentito di averlo fatto, non ho mai pensato di abbandonare mio figlio perché stanco o deluso di lui. Io ho sempre fatto il possibile, compresi tanti errori, per cercare di dargli tutto quanto potevo, nei limiti delle mie possibilità. Ho anche rimandato il momento della pensione per lui, perché da pensionato non guadagnerò mai come ora che sono ancora al lavoro, e vorrei aiutarlo al meglio possibile prima di abbandonare quello che ancora un po’ mi interessa ma che ormai inizio a non sopportare più perché la burocrazia, la stupidaggine degli uomini e la mia minor resistenza fisica mi rendono sempre più pesante.
Non so se basta questo per amare un figlio, e se è sufficiente averlo voluto, cercato di farlo nascere sano e crescere nel modo più adatto (forse troppo protetto) per dire che è stato un atto di amore.
In proposito ho sempre forti dubbi. Sono certo che è stato anche un atto di amor proprio, di egoismo, e anche di razzismo, forse, e di rifiuto del diverso.
Prima di tutto abbiamo cercato le garanzie possibili che potesse nascere sano, con le analisi prenatali, ed eravamo teoricamente pronti ad effettuare un aborto in caso di gravi malformazioni genetiche o nello sviluppo embrionale. Non volevo un bambino con handicap, forse sempre per egoismo, ma anche per non far vivere con menomazioni un nuovo essere umano. Questo ancora oggi, fa parte della mia filosofia di vita.
Non ho voluto poi che avesse un fratello o una sorella. Abbiamo evitato altre gravidanze, con mia moglie, senza alcun bisogno di aborti, per fortuna. La motivazione è tutta nei miei pessimi rapporti con mio fratello, col quale ormai non mi vedo da anni, e, pure per telefono, ci sentiamo raramente.  Non volevo per mio figlio nulla di potenzialmente negativo o problematico.
Ho pure riflettuto sulle adozioni, nel caso fossimo stati nelle condizioni di fare questa scelta. E, qui viene fuori la mia indole razzista forse, non avrei mai adottato un bambino straniero scuro di pelle, o asiatico, o, comunque diverso.  Non volevo, appunto, che si potesse sentire diverso.
Ogni nuovo essere umano che arriva al mondo dovrebbe, se generato con un atto di volontà, e non se arrivato per caso o per un incidente, ritrovarsi le migliori potenzialità, le migliori opportunità concesse dalle condizioni economiche e sociali della famiglia.
Ho sentito recentemente parlare uno studioso che riferiva come nelle società più evolute e benestanti (la nostra, ad esempio)  la tendenza sia quella di fare meno figli, perché si riflette anche sui costi che un figlio comporta, cosa costa mantenerlo cioè sino ad aiutarlo a compiere studi a livello superiore o universitario e poi ad aiutarlo prima che diventi indipendente. Nelle società in via di sviluppo basta meno per allevare un figlio, e se ne fanno tanti, crescono quasi da soli, in strada. Cosa c’entra l’amore in tutto questo, in questa realtà demografica inconfutabile, e che la Chiesa senza incertezze definisce appunto egoismo?
Io ho tanti dubbi, troppi dubbi. Sono a favore della legge 194 senza aver mai dovuto far riscorso alla interruzione volontaria della gravidanza. Sono a favore perché non posso negare a nessuno la libertà di una scelta in coscienza.  Non accetto nessuna imposizione dogmatica o fideistica. Se appena intuisco queste impostazioni, se sento parlare di valori indisponibili, scatta la mia opposizione in tutti i modi leciti e possibili e la mia avversione umana e filosofica diventa netta.
L’amore è, per me, cercare di dare qualità alla vita. È tentativo di far raggiungere la felicità. È disponibilità anche materiale di aiutare chi amiamo. 
Far nascere un infelice non è e non sarà mai un atto di amore. Portare alla coscienza la propria natura di essere umano che non potrà mai vedere come gli altri, correre come gli altri, sentirsi come gli altri è crudele. Meglio che l’embrione non arrivi mai allo stadio della coscienza di sé, che non percepisca mai l’abisso di dolore nel quale la sua vita più o meno lunga lo ha predestinato. Non odio Dio per questo dolore che viene regalato a tante persone, perchè probabilmente neppure esiste. M anon lo ritengo un atto di amore.
                                                                         Silvano C.© 


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lunedì 3 ottobre 2011

Dove stanno gli animalisti?


Io non sono vegetariano, ma condivido molti sentimenti e molte tesi dei vegetariani. Non sono neppure un animalista, ma non amo sofferenze inutili negli animali. Gli animali sono esseri viventi come noi, credo solo meno evoluti, ma non mi addentro in questi temi, piuttosto propongo una riflessione.
Nei giorni scorsi il bacino artificiale che imbriglia il torrente Leno, sopra Rovereto di Trento, è stato svuotato per lavori di manutenzione. Tutti i pesci che vivevano in quel lago sono morti. Solo i pescatori avevano ipotizzato un tentativo di salvarli, bloccati poi dalle condizioni di oggettivo pericolo per le persone. Ora non ho letto, sulla stampa locale, o visto appesi in giro cartelli di denuncia di questo fatto. Nessuna associazione ambientalista o animalista ha detto nulla, che io sappia. 
Forse che i pesci sono figli di un dio minore e non soffrono? Non mi convince questa cosa, ma mi fermo qui, perchè io ho solo dubbi, in proposito, e poche idee sicure. 
                                                                                Silvano C.©
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domenica 2 ottobre 2011

Sono un illuso

Se penso ai problemi che il mondo politico non riesce a risolvere, anzi, complica e rende cronici, mi viene prima rabbia, e poi depressione.  Vedo intrallazzi specialmente da una parte politica, anche se pure le altre non ne sono immuni, purtroppo, e vedo le speranze di una vita migliore per mio figlio ridursi sempre di più. Provo paura per gli anni della mia vecchiaia, e sento impotenza per quello che faccio nel mio lavoro, perché ammetto che certe volte ancora mi diverte, ma lo avverto sempre più inutile, sprecato, svuotato di significato e di valore sociale.
Credo però che il lavoro, o l’impegno personale in qualche ambito, sia la sola salvezza che rimane ad una persona. Puntare al denaro ed al successo non so dove porta, magari soddisfa pure quello, o gratifica. Solo che io non so gestire gli affari che esulano dal quotidiano, non sono un abile commerciante, e non so vendere assolutamente nulla. Se io puntassi al denaro dovrei ammettere il fallimento. Non un fallimento completo, ovviamente, perché qualcosa ho messo da parte, ma sempre un fallimento, perché vivo del mio stipendio dipendente, avrò una pensione che proporzionalmente sarà più bassa di quella di mio padre, anche se io ho studiato più a lungo, e mio figlio l’avrà, se l’avrà, molto più bassa della mia. Per il fisco io appartengo al ceto medio-basso, credo, o forse medio, volendo essere ottimisti. Esenzioni praticamente non ne ho, se non per patologie di tipo sanitario. Mio figlio forse supererà il reddito dei quasi 3000 euro annui e quindi pure lui è ufficialmente autonomo, non sarà più a mio carico, visto che i circa 200 euro lordi di guadagno mensile lo rendono evidentemente indipendente.
Eppure lavoro ancora, e ci credo, pur vedendo le ingiustizie folli che mi sovrastano. Sono un illuso.
                                                                    Silvano C.©
( La riproduzione è riservata. Ma non c'è nessun problema se si cita la fonte.  Grazie)

Cosa ci spinge a fare le cose?

Perché si fa una cosa? Cosa ci spinge ad iscriverci ad un corso di lingue, ad andare in vacanza in un certo posto, cosa ci fa cercare una persona oppure frequentare una certa associazione sportiva?
E perché tante persone sentono il bisogno di scrivere un blog, di comunicare ad altri, in rete, le proprie emozioni o le proprie idee?
Io ricordo una esperienza giovanile, quando un amico mi ha introdotto in una società sportiva parrocchiale, forse impietosito dal vedermi spesso perdere tempo in giro per fatti miei, in un gesto che ora devo riconoscere di vera amicizia, anche se allora mi sentivo sinceramente lo stupido della coppia (di amici), quando andavamo in giro assieme. È stato l’ultimo atto della nostra amicizia, perché poi ci siamo persi definitivamente di vista (i nostri caratteri erano troppo diversi).  Spigliato e sicuro con le ragazze, lui, pure un po’ porco, se devo essere sincero; assolutamente inadeguato io, con esperienze prossime allo zero.
Quindi io ho iniziato a frequentare un luogo che per i successivi tre o quattro anni avrebbe modificato la mia vita, in modo completo. Io, assolutamente non sportivo in una società sportiva, vagamente ateo in una parrocchia, timido e solitario sparato tra la gente, tra i coetanei.
Cosa mi spingeva tra quella gente? Ora posso dirlo, la voglia di vivere, finalmente. La possibilità di esprimermi in una forma meno criptica, e di realizzare piccole soddisfazioni, di sentirmi in qualche modo importante o almeno cercato.
E cosa spingeva gli altri? Difficile dirlo con sicurezza. L’amico che mi aveva introdotto, pochi mesi dopo ha lasciato la società sportiva. A lui interessava giocare al calcio, però non brillava come giocatore, e si ritrovava a volte a dare passaggi con l’auto ad altri che all’ultimo momento lo avrebbero sostituito nella squadra. Si è stancato e non l’ho più visto.
L’allenatore della squadra faceva il fornaio, era stanco di alzarsi tutte le notti, voleva una spinta per avere un posto diverso e sperava che il parroco lo potesse aiutare.
Un responsabile che teneva in piedi la società era un impiegato di banca, un ragioniere, legato alla parrocchia, motivato dalla voglia di sentirsi utile.
Alcuni giocatori avevano come mira esclusivamente il poter giocare, il farsi conoscere, magari poter arrivare ad altre società più blasonate. Altri ancora forse cercavano solo un modo per fare un po’ di sport.
 Ed ora cosa mi spinge a provare a scrivere un blog?  Mica lo so con certezza.
                                                                          Silvano C.© 


( La riproduzione è riservata. Ma non c'è nessun problema se si cita la fonte.  Grazie)

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